Vitaliano Ranucci

POSTFAZIONE

Fratello sole, sorella terra

Credo che un’antologia di opere, come quella presentata in questo sito, per quanto ampia e riassuntiva del percorso di un pittore/incisore, non possa dare, da sola, una visione completa ed esatta della sua vita artistica o dire, in concreto, che cosa l’autore si proponga.

Per meglio comprendere un artista, creatore di immagini e di emozioni che, spesso, vanno al di là di quanto rappresentato in quell’universo semplificato di un quadro, bisogna, infatti, fare riferimento anche alla sua biografia, alle sue radici, alla terra in cui ha vissuto ed operato, alla sua formazione culturale.

Parlando di mio fratello Vitaliano, perciò, appare utile, innanzi tutto, ritornare ai suoi “luoghi della memoria” per svelare appieno il suo “ritratto” d’artista e di uomo.

Questi luoghi sono quelli di questa Terra di Lavoro, con la sua solarità abbagliante, che emerge prepotentemente perfino da quei chiaroscuri delle sue incisioni capaci di esprimere tutto l’amore per questa “sua” terra, che, nel corso degli anni, purtroppo, è stata tradita, colonizzata, violentata, in nome del miraggio di una industrializzazione che, alla fine, ha lasciato solo delusioni e disastri ambientali.

A quei paesaggi, sempre così pieni di luci e di colori, a quella amata e amara terra, Vitaliano eleva un inno, che diventa, direi, quasi una elegia, che sembra richiamare il “Cantico delle creature” del poverello di Assisi; quel “fratello sole” e, soprattutto, quella “sorella terra” con la sua storia, la sua fiera cultura impregnata di rustiche virtù, vengono rievocati da Vitaliano con animo commosso, con un accorato invito ad amarli.
Egli ci addita, con la “poesia visibile” delle sue opere, la nobiltà del sudore, della fatica, dei sacrifici legati a quel mondo agreste, di quei lavori umili ma dignitosi, che arricchiscono in umanità, perché quella terra non è mai rappresentata sfruttata, ma coltivata, con amore, pazienza, gratitudine, con cura e dedizione.

Il percorso artistico di Vitaliano può sembrare, ai più, quello di un viaggiatore in una terra sconosciuta per loro inesplorata, ma che, invece, egli conosce molto bene, tanto da riproporla come radici comuni di una intera comunità, che dovrebbe esserne fiera ed interessata, perché da quella sua ricchezza, non solo materiale, può trarre linfa vitale per crescere e progredire.

C’è una costante nelle opere di mio fratello, che va al di là del puro gesto artistico: in ogni suo tratto c’è quasi la ricerca dell’anima di quel mondo e di quella civiltà contadina, un modello di vita di un’epoca ormai quasi scomparsa.

È un’operazione, questa, che chiamerei antropologica; il suo viaggio artistico verso un “altro tempo”, la sua ricerca di quel “tempo perduto” infatti, nasce, innanzi tutto, dalla necessità e dall’esigenza di riproporre i vari aspetti della sua terra, di un Sud pre-storico, arcaico, con i caratteri e il fascino del mito.

Ma quella parte del Sud, con i suoi volti, luoghi, modi di produzione, riti, tradizioni, diventa tutto il Sud alla riscoperta di una sua intima umanità, simbolo di una comunità quasi atavica, da cui egli proviene, che oggi a malapena sopravvive con una scala di valori, spesso nettamente diversi da quelli del tempo presente.
Questo recupero delle ultime tracce di quel mondo contadino (“dell’ultimo grande villaggio”, come Pasolini definiva la sua amata Napoli) non ha, allora, solo un valore artistico o nostalgico ma, direi, soprattutto culturale e politico.

Ci sono tanti modi di fare politica, di interpretare un ruolo politico; mio fratello, con la sua attività di artista, estesa per molti anni anche nel campo teatrale, ha scelto la funzione “civile” dell’arte, il contributo, cioè, che l’intellettuale, con i mezzi che ha a disposizione, sente il dovere di offrire alla causa di un popolo col suo anelito di affrancarsi da una condizione di subalternità, che, per il suo Sud, va al di là di quella economica derivante da una irrisolta “questione meridionale”, convinto, infatti, della possibilità anche di un riscatto morale di un territorio martoriato ma, proprio per il suo glorioso passato, degno di rinascita.

Certamente l’arte non può cambiare il mondo, né può confondersi con l’azione politica, né con il linguaggio della politica; deve piuttosto indicare un luogo ed indurre ad una visione collettiva.

Quest’arte civile deve essere la bandiera di un luogo (anche virtuale o da recuperare) di appartenenza, da difendere, da realizzare, da conquistare.

Io credo che questi princìpi sicuramente siano presenti e vivi nell’arte di mio fratello.

BRUNO RANUCCI